martedì, dicembre 21, 2004

Join the Barack Brigade

Erano tempi non sospetti. La Convention democratica di questa estate. Prima di John Edwards e prima di John Kerry (qualcuno se li ricorda ancora?), a Boston vidi salire sul palco un giovane quarantenne di colore. Barack Obama, sangue misto, kenyano-hawaiano-americano. Avvocato civilista, specializzato nel sociale. Presentato come l'astro nascente del partito democratico. Dopo cinque minuti, la folla era totalmente paralizzata. Pendeva dalle sue labbra, incatenata da uno speech che non lasciava appello.

La sensazione era quella di avere di fronte un uomo diverso. Un politico diverso. Uno che superava in un salto la contrapposizione destra-sinistra e posizionava noi orfani politici sul nuovo asse integralismo-progressismo. Il "nemico" dei vari Bush, Cheney, Osama, Buttiglione... Idee, finalmente, semplici e chiare. Nessun compromesso. Nessuna corsa al centro. Un programma politico, cazzo...

Poi la storia. Barack vince nel suo collegio, contro il senatore repubblicano uscente, con uno schiacciante 71%, risultato più alto ottenuto da un candidato democratico alle elezioni dello scorso novembre. Unico senatore afro-americano da venticinque anni negli USA. E, questa settimana, Newsweek, lo elegge uomo dell'anno, in contrasto con l'uomo dell'anno di Time, il solito Giorgino Bush, sancendo uno scontro che non è personale, ma epocale.

Barack (leggete il suo blog ) è perfetto, come solo gli uomini nuovi sanno esserlo. Il carisma di Kennedy, il pedigree giusto per affascinare i no global, idee coerenti per attirare il voto dei moderati benpensanti. Adesso rimane solo da vedere quanti anni mancano perché gli USA accettino l'idea di un presidente di colore. Ma una cosa è certa: se mancano meno di trent'anni, l'unico che può farcela è Barack Obama.

mercoledì, dicembre 15, 2004

Regalo di Natale

E pensare che con la morte di Arafat, pensavamo di essercela tolta di torno... E invece Oriana raddoppia, triplica e, a volte, quadruplica. Il delirio di onnipotenza era arrivato ai suoi limiti massimi con "Oriana Fallaci intervista Oriana Fallaci", un atto di onanismo intellettuale che aveva lasciato senza parole anche Marzullo. E, invece, sotto Natale, per tutti quelli che se li erano persi, arriva il cofanetto con i suoi tre ultimi pamplhet. Raccolti tutti insieme (ne esiste anche un edizione extralusso in pelle marocchina...).

Che sia davvero la fine? Lo suggerirebbe il quarto agile volumetto allegato, L'Apocalisse, ma la sagace giornalista-saggista-polemista non ha certo intenzione di fermarsi qui. Già pronto per le stampe il nuovo saggio di fanta-religione "Dieci consigli che darei a Dio", in via di revisione il librino di Pasqua "Trattare male gli altri e farseli amici", ormai abbozzato il trattato di economia "Come fare fessi 2 milioni di lettori e gonfiare il proprio conto in banca", scritto a quattro mani con Dan Brown.

Forse, ma dico forse, alla fine sarà davvero la fine. La fine dell'odio e del dolore. A meno che Oriana non accetti l'offerta di Massimo Moratti e, nella prossima stagione, non alleni l'Inter...

martedì, dicembre 14, 2004

Apologia del non perdere


Qualcuno sa dirmi che cosa sta succedendo? Sembra che la nostra cultura sia sempre più ossessionata dalla vittoria. Stiamo diventando sempre più americani. E non parlo del cinema, della televisione, dei giornali. Parlo dello sport. Il vincitore prende tutto e il loser diventa una figura caricaturale, da barzelletta, un'espressione gergale, un modo di dire.

Peccato che il nostro sport nazionale sia un po' diverso da quelli americani. Prevede anche una figura eretica: il pareggio. Che cosa sei, allora, per questa cultura della vittoria, se non sei un vincente, ma nemmeno un perdente? Diventi un'anomalia difficile da gestire. Il "primo non prenderle" che ha segnato tutti i più importanti trionfi del calcio italiano, da Rocco a Herrera, da Trapattoni a Capello, è stato definitivamente defenestrato. Oggi non perdere non basta più.

E' vero. Forse 13 pareggi su 16 partite sono tanti. Ma vent'anni fa, l'Inter, unica squadra imbattuta in Italia e in Europa, sarebbe stata a 18 punti, a sole 8 lunghezze dalla prima in classifica. E sarebbe stata celebrata come una sorta di invincibile armada. Una squadra che non muore mai.

Invece, oggi, l'Inter naviga pallida a metà classifica. E i media hanno iniziato il "crucifige" dell'allenatore di turno. Il loro sport preferito. Senza nemmeno il dramma dei grandi sconfitti. Mancini è meno di Cuper, giustiziato a Roma il 5 maggio. Meno, perché i grandi sconfitti hanno la loro dignità. Chi si limita a non perdere, dà solo fastidio. E' un'anomalia. Da cancellare, per fare rientrare in quel paradigma in bianco e nero (tanto per cambiare...), che conosce solo un vincitore e tanti sconfitti.

Qualcuno sa dirmi che cosa sta succedendo?

lunedì, dicembre 13, 2004

"Closer", o l'acquario dei sentimenti

Adattare un testo teatrale per il cinema è una delle imprese più difficili, a livello di sceneggiatura. Se poi a scrivere il copione è lo stesso autore della pièce teatrale, la partita è persa in partenza. "Closer", di Mike Nichols, non fa certo eccezione. Là dove avevano fallito autori del calibro di David Mamet, difficile che riesca il pur bravo Patrick Marber. Nonostante quattro attori impegnati allo spasimo (su tutti un Jude Law stratosferico), il film è un esercizio di stile che annoia anche un pochino. Grandi dialoghi, d'accordo, grandi riflessioni sul senso dell'amore, che potrebbero coprire un paio di stagioni dei Baci Perugina, d'accordo. Ma il senso complessivo è quello di avere osservato per un'ora e mezza quattro pesci in un acquario.

Del resto, lo stesso autore lo dichiara: "Closer" è un acquario dei sentimenti, con quattro personaggi estraniati dalla vita e dalla società che si amano, si tradiscono, si lasciano e si riprendono. Ma manca un senso complessivo, quel senso che è indispensabile al cinema, mentre può anche mancare in teatro. Senza un "tema morale" forte, che innervi la struttura narrativa, senza un domanda centrale a cui la sceneggiatura provi a dare un risposta, non si fa un film.

Una sfida per tutti quelli a cui il film è piaciuto: provate a dirmi qual è la posizione dell'autore sull'amore. Esiste? Non esiste? Che cosa significa amare? E tradire? Sono queste tutte le domande messe in gioco dal testo. Che restano misteriosamente disattese. O, meglio, non tanto misteriosamente. In teatro, infatti, complice la con-presenza di un pubblico partecipe, il gioco funziona. Io, autore, pongo le domande. E tu, spettatore, provi a dare le tue risposte.

In teatro il gioco funziona, perché l'acquario è senza il vetro che invece esiste al cinema. Per questo davanti a uno schermo siamo più protetti, ma abbiamo, nello stesso tempo, bisogno anche di un maggiore aiuto. È necessario che l'autore si faccia spettatore all'interno del film stesso e crei un simulacro della nostra presenza (il bettetiniano enunciatario): che indirizzi la nostra comprensione, riempiendo il testo di quel senso che manca a "Closer".

La regia di Mike Nichols, nonostante la pluridecennale esperienza, non va oltre la sufficienza. Non bastano un paio di trovate per risolvere un film a cui manca, e troppo, tutto il mondo esterno. Ancora il paragone con il teatro è esplicativo: su un palcoscenico posso anche dimenticarmi che esiste un mondo attorno. Al cinema non ci riesco. Dove sono i conflitti sociali? Ben lascia Alys perché Anna gli può consentire un salto sociale? E Anna lascerà poi Ben perché uno scrittore fallito non può essere all'altezza di una fotografa di successo? Che conflitto esiste tra "americani" e "inglesi"? Silenzio su tutta la linea.

Anche l'ossessione per il sesso, che è una delle cifre più interessanti e distoniche del testo teatrale, rimane solo sulla superficie nella versione cinematografica: e diventa un esercizio di routine, un modo cortese di scandalizzare il pubblico e dare l'idea che il film sia più profondo di quanto, in realtà, non sia. Insomma, per quanto vi possano piacere i pesci, dopo un'ora e mezza passata davanti all'acquario di "Closer", il desiderio più forte sarà quello di un fritto misto...

"The Incredibles", o dell'incredibile vanità

"The Incredibles", di Brad Bird, è il quinto film targato Pixar e viene subito dopo l'incredibile successo di "Finding Nemo" e subito prima dell'ultimo film, "Cars", che Pixar farà con Disney. E come i precedenti film, anche "The Incredibles" è un film bellissimo. Grafica superlativa con scelte coraggiose di stilizzazione, una trama avvincente e divertente, un tema morale forte, che è la cifra stilistica più significativa della produzione Pixar. Insomma, quello che ci si aspettava dalla company di Steve Jobs. Quello a cui ci aveva abituato. Ma niente di più.

Il problema, se di problema si può parlare, è tutto qui. Ognuno dei precedenti film (non consideriamo "Toy Story 2", che era semplicemente una variazione sul tema del primo) era un passo avanti che letteralmente spaccava con tutto quello che si era visto prima, senza ricorrere a trucchetti di bassa lega, come, ad esempio, fece la Dreamworks con il primo "Shrek". Eppure, "The Incredibles" lascia, alla fine, l'amaro in bocca di un'occasione perduta.

Il tema dei supereroi, che mi è indubbiamente molto caro, era una scelta rischiosa. Terribilmente rischiosa. Dai tempi del "Dark Knight Returns" di Frank Miller e di "Watchmen" di Alan Moore (di cui peraltro il film è diretto debitore), è difficile scrivere di supereroi. Il cosmico successo di "Spiderman" o della saga degli "X-Men" a livello cinematografico non deve trarre in inganno: si tratta di rimasticature a effetti speciali di temi e archetipi che sono ormai bolsi a livello mitologico: buoni film, divertenti, ma che si rifanno a un modello superato, dai tempi e dalle storie che sono state scritte negli anni Ottanta.

E qui stava la sfida. Andare un passo oltre. Portare la riflessione su che cosa significa la metafora supereroistica oggi. Qui il film manca clamorosamente il suo obiettivo. Qualche critico, che probabilmente non sa nemmeno che cosa siano i supereroi (ma si sa, il critico cinematografico medio va solo al cinema, non legge e non guarda la televisione...), ha voluto leggerci una dichiarazione d'intenti nietzschiana nel film. Per riprendere il paragone, "The Incredibles" è, purtroppo, invece, un film umano, troppo umano.

Ma la cosa più irritante è che "The Incredibles" è un film vanitoso, che si specchia nella sua bravura: è difficile trovare un difetto (a parte il terribile doppiaggio italiano di Elastigirl). La sceneggiatura è solida, la regia fenomenale: ma il film manca di passione. E, credo, il suo destino sarà quello di essere presto dimenticato...

lunedì, dicembre 06, 2004

Il volto della rivoluzione

Che cosa serve per fare una rivoluzione oggi? Prendete un network ben avviato di ex-agenti CIA che hanno lavorato in Polonia negli anni '80, in Romania negli anni '90 e più recentemente in Serbia, stabilendo un bel po' di contatti nei paesi dell'ex-blocco sovietico.

Metteteli in contatto con le forze dell'opposizione, magari in occasione di un'elezione presidenziale. Scegliete il candidato presidente da sostenere: l'identikit è semplice. Deve essere filo-occidentale, ben presentabile e avere alle sue spalle le forze produttive della nazione (i neo-miliardari, per intenderci).

Poi iniziate a contestare i risultati ottenuti: non importa quali siano. Se ci sono brogli negli USA, immaginatevi in Ucraina. Mobilitate le folle: partite con gli studenti, sono i più facilmente impressionabili. Scegliete un luogo simbolo: meglio una piazza della capitale (Tien An Men docet). Radunateli tutti: se piove o fa freddo, meglio.

Date loro un obiettivo concreto: rifare le elezioni, ripetere una partita di calcio. Qualcosa di semplice, su cui si possano intonare facili slogan. Meglio un rap, di questi tempi. Trovate anche un simbolo: un fiore (le rose funzionano, le orchidee no) o un colore (l'arancione è bello perché viene bene in foto).

Poi coinvolgete i mass media occidentali. Che inizino a dare una copertura "epica" della situazione: buoni contro cattivi, le forze del bene contro quelle del male. Più si polarizza il dibattito, meglio è. Quindi coinvolgete i testimonial locali: una star del calcio, un ex-sindacalista polacco disoccupato. Ci vuole anche una donna, magari carina e dal piglio deciso come Julia Tymoshenko.

Il gioco è fatto.

LP outing

Steve Jobs è sbarcato in Italia: ha aperto, finalmente, I-Tunes Italia e il nostro modo di ascoltare la musica è destinato a cambiare profondamente. Non parlo tanto del download più o meno legale, quanto piuttosto della messa in crisi del modello LP.

Lo confesso: ho sempre odiato gli album. Non sono mai riuscito a trovarne che mi soddisfacesse fino in fondo: fin da quando ho avuto la possibilità, ho sempre preferito compilation o playlist personali. Rivendicavo il diritto di ascoltare la musica nell'ordine e nei modi che a me piaceva.

So che molti considerano l'album un'opera completa, che arriva direttamente dall'autore. Ma non me ne frega molto. Preferisco poter scegliere, esattamente come faccio con un'opera di narrativa, costituita da più racconti brevi: scelgo quali leggere, ne abbandono alcuni, vado fino in fondo con altri.

In fondo, l'LP è stato soltanto uno dei modi di organizzare la musica. Prima del disco, le sinfonie, i concerti, le sonate erano organizzati in modi temporalmente diversi, in funzione della fruizione live. Quindi, ben venga I-Tunes e il suo modo "nuovo" di ascoltare la musica...

Doping o non doping?

Torniamo a parlare di doping. Le notizie si rincorrono, tra la Juve, il ciclismo, la Balco e le Olimpiadi messe in discussione. L'ipocrisia dei commentatori è pari solo alla quantità di Epo che si sparano in vena gli atleti.

La verità è una sola: da sempre tutti gli atleti assumono sostanze per migliorare le loro prestazioni. Che siano vitamine o creatina, poco importa. Il limite della legalità è stabilito su basi discutibili e, come al solito, i furbi sanno come aggirare i vincoli.

Quindi, perché non accettare il doping come un aspetto normale dello sport, esattamente come accade nella Formula 1 con le automobili? Nessuno pensa che la Ferrari sia "dopata" perché ha un motore che produce più cavalli della McLaren...

Doping libero. E' l'unica strada per tornare a gareggiare tutti quanti alla pari.

Una lezione di calcio

Ambrosiana 8 - Real Belin 1. E' questa la nuda cronaca del massacro che si è compiuto ieri al Cupertino Field (per maggiori informazioni, visitate il sito ufficiale della Lega ISC, La Mazzetta dello Sport).

Dopo qualche mese di provocazioni e una partita di andata bugiarda, gli undici leoni del signore del Male sono scesi in campo decisi ad arrotare le caviglie dello pseudo-campione in carica. Se fossimo stati nel baseball, la partita sarebbe stata interrotta per manifesta inferiorità. A memoria d'uomo, nella Lega ISC, non si ricorda una simile debacle.

L'allenatore dei Belini, in lacrime dopo la partita, ha annunciato: "Per risollevare il morale della squadra, domani porterò tutti in gita nell'unico posto che non hanno mai visto. La metà campo avversaria..."

Ecco il tabellino dei supercampioni: Lupatelli (7), Rullo (9), Thuram (5,5), Maldini (6), Parisi (5), Abeijon (10), Dalla Bona (9), Cambiasso (7), Zagorakis (5,5), Adriano (17), Zola (13,5). Il tutto per un totale di 97,5, che rappresenta il record di tutti i tempi per una squadra di fantacalcio...

Ci vediamo in coppa.

venerdì, dicembre 03, 2004

RECENSIONE: "Donnie Darko", o la nostalgia del futuro

Non so se Donnie Darko sia uno dei migliori 100 film della storia del cinema. E non mi interessa poi molto. Quello che è certo che siamo di fronte a un grande film: la migliore opera prima dai tempi di Sex, Lies and Videotapes di Steven Soderbergh e, in assoluto, il miglior film sull’adolescenza dopo I quattrocento colpi di Francois Truffaut.

Un film ambizioso e coraggioso, che sembra la visualizzazione pop di una seduta psicanalitica di Philip K. Dick. Un film sugli universi tangenti, sulla second chance, sulla nostalgia del futuro. Ed è quantomeno affascinante che il percorso narrativo del film ricalchi il destino extratestuale delle pellicola stessa: girato nel 2001, è stato per 3 anni in un limbo alternativo, fatto di passaparola su Internet. E ha dovuto attendere il successo planetario dei fratelli Gyllenhal per conoscere la sua seconda possibilità e la notorietà.

L’unico modo per parlare di Donnie Darko (andate a leggervi lo straordinario shooting script) è assumere la sua stessa prospettiva, quella della psicanalisi e dell’analisi dell’inconscio: solo andando a ritroso si può dipanare il filo complesso della narrazione che mette in più punti alla prova la cultura e la pazienza degli spettatori, per ripagarli alla fine con un’esperienza sublime di condivisione e di pienezza emozionale.

Esattamente come Gretchen, alla fine del film, nell’ultima battuta, noi non sappiamo chi è Donnie Darko. E non lo sapremo mai. Perché tutto quello che ci è concesso di sapere di lui, sono solo quei 28 giorni di non-vita in un universo tangente, in cui la simultaneità dell’inconscio di un ragazzo turbato, si stempera in una narrazione apparentemente sequenziale, in cui il tema è la perdita delle illusioni.

Quante volte ci siamo chiesti come sarebbe stata la nostra vita, se… Il tema eterno del what if… diventa paradigma esistenziale del passaggio dall’adolescenza all’età adulta, con la ribellione all’autorità, la scoperta del sesso, il superamento del complesso di Edipo che si rincorrono, si negano e si inverano, in un tourbillon di riferimenti letterari (Graham Greene), cinematografici (Evil Dead di Sam Raimi e L’ultima tentazione di Cristo di Martin Scorsese), politici (le elezioni americane del 1988), musicali (Tears for fears e Duran Duran), che lungi dall’essere divertissement radical geek sono le più nitide indicazioni segniche sull’interpretazione da dare alla narrazione che Richard Kelly, il regista-sceneggiatore, potesse darci.

Donnie ha avuto un passato difficile: è stato in riformatorio dodici mesi (lo sappiamo dal sito www.donniedarko.com, esperienza extratestuale complementare e curatissima) per avere incendiato una casa. Soffre di sonnambulismo e, il 2 ottobre (le date sono tutto), viene ucciso nella sua stanza da letto dal motore di un jet o dal cielo che si apre sopra di lui, un cielo guidato da un dio cattivo e indifferente, che è la cifra ontologica di tutto il film. Ma invece che vedere tutta la sua vita che gli scorre davanti agli occhi come in un film nell’attimo della morte, Donnie vede uno squarcio della sua vita futura. 28 giorni e spiccioli. E sogna, oppure immagina, oppure vive un universo tangente. Scegliete la versione che più vi piace per spiegarvi quello che succede. Quello che importa è altro.

"Altro" è il fatto che in questi 28 giorni, Donnie, e noi con lui, vive tutta un’esistenza, in cui il passato e il futuro si sovrappongono, si intersecano per poi ricongiungersi nello straordinario finale che rimette metafisicamente le cose a posto. Ama, odia e si vendica (forse di chi ne aveva abusato durante l’infanzia?); prova a superare il suo complesso materno (incarnato dalla madre onnipresente e dalla psicologa, due facce della stessa crisi); scopre le sue maschere (altro tema fondamentale del film: la scadenza del destino è la festa di Halloween) e distrugge quelle degli altri. Vive una seconda occasione, scoprendola poco alla volta, per arrivare alla desolante conclusione che non esistono seconde occasioni. Il nostro destino è segnato. L’unica speranza che ci rimane è andare ogni giorno alla cassetta delle lettere per vedere se arrivano notizie dal futuro.

Qui sta la vera rivoluzione del film: il cinema americano da cent’anni ripropone lo stesso meccanismo, che viene definito consolatorio. Un eroe si trova di fronte a una prova: e sbaglia. Poi per tutto il film cerca di meritarsi una seconda occasione. Ci arriva e questa volta vince. Dalle love story ai film d’azione, il cinema è tutto qui. Ma non per Richard Kelly.

Il giovane regista (è del 1975) ci dice una cosa diversa: Donnie non ha mai avuto una seconda occasione, non poteva scegliere. Il suo destino è segnato. Perché nella vita non esistono le seconde occasioni. E il riferimento all’ultima tentazione di Cristo eleva in maniera subliminale la parabola inconscia di Donnie al livello di figura cristologica, trasferendo l’esperienza di un ragazzino della Virginia a condizione esistenziale dell’umanità. E tutto quello che ci resta sono le parole finali di Mad World dei Tears for Fears: “the dreams in which I´m dying are the best I´ve ever had”…

giovedì, dicembre 02, 2004

Il fascismo come malattia mentale

Che io sappia nessuno a mai provato a dare una spiegazione patologica del fascismo (o della sua degenerazione religiosa, l'integralismo): eppure, molti psicologi, tra cui Kohlberg, hanno più volte rimarcato come nello sviluppo morale dell'individuo, lo stadio dell'integralismo sia uno dei passaggi attraverso cui il bambino prima, e l'adolescente poi, passano, sino ad arrivare alla maturazione completa e adulta del pensiero morale.

In particolare, si tratta della penultima fase, quella in cui si esternalizzano le norme morali e si massimalizza il concetto di dovere: in altre parole, si fissa la regola "fuori di sè", per poter essere più certi dell'efficacia della norma stessa. Questa fase dovrebbe essere solo un passaggio, che conduce nell'ultimo stadio all'interiorizzazione delle norme e all'età adulta.

Mi pare sempre più evidente che il grande scontro di "cultura", più che di civiltà, a cui stiamo assistendo in questi ultimi anni, sia proprio tra queste due diverse fasi di maturazione dell'individuo e della società: da una parte chi abdica a prendersi le proprie responsabilità individuali e trasferisce le norme morali a una non-ben-precisata verità assoluta, in nome della quale tutto diventa possibile; dall'altra, chi ha raggiunto la maturità di saper accettare una morale più flessibile ed è disposto ad accettare che la verità sia frutto sostanzialmente di un incontro con l'altro e di una mediazione di posizioni.

Purtroppo, anche se la diagnosi fosse valida, la cura sarebbe probabilmente un po' più complicata. Non credo, infatti, che siano su tutto il pianeta quei 3/4 miliardi di lettini su cui fare sdraiare i pazienti...

mercoledì, dicembre 01, 2004

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La speranza è l'ultima a morire...

JUVENTUS - In arrivo una penalizzazione in classifica?

TORINO - Non sembra placarsi il clamore attorno alla Juventus. Dopo la sentenza sul processo doping che ha fatto molto discutere, arriva una nuova possibile tegola addosso al club bianconero. Una possibile penalizzazione nel campionato in corso. Fantacalcio? Non sembrerebbe, a sentire l'ex capo della procura antidoping del CONI, l'avvocato Giacomo Aiello. 'In linea teorica la procura antidoping del Coni puo' riaprire il fascicolo - spiega l'avvocato di Stato - e la corte d'appello federale del calcio puo' chiedere una sanzione, che si puo' tradurre in una penalizzazione in punti da applicare nel campionato in corso'. Adesso, la parola ai legali bianconeri e ai giudici.

Triste è la nazione che ha bisogno di eroi

In USA il dibattito è acceso. I Marine hanno preso Fallujah e l'immagine commemorativa (eccola qui) che farà il giro del mondo su magliette e cartoline è quella del capitano Miller, ripreso mentre si fuma una sigaretta con lo sguardo stanco e fiero. Uno scatto che sembra uscito dalla versione a fascicoli di Slightly out of focus di Robert Capa. Credete che il dibattito sia sulla presa di Fallujah? Sulla morte di migliaia di iracheni? Sul senso stesso di questa guerra? No, il dibattito, che appassiona politically correct l'America, riguarda solo l'opportunità di mostrare un esempio "sbagliato" ai bambini. Ovvero, vai, gira il mondo e uccidi. Ma non fumare. Fa male...

lunedì, novembre 29, 2004

Dieci cose che odio di te


Sto preparando i primi post. Argomento: elezioni americane. E mi capita di ascoltare queste parole di Bob Dylan. Buffo che anche a quei tempi ci fossero commander in chief in giro...


TOMBSTONE BLUES

Well John the Baptist
after torturing a thief
looks up at his hero
the commander in chief
saying tell me great hero
but please make it brief
is there a hole for me
to get sick in

The commander in chief answer him
while chasing a fly
saying death to all those
who would whimper and cry
and dropping a barbel
he points to the sky
saying the sun is not yellow
it’s chicken

(Bob Dylan, 1965)

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