Non so se Donnie Darko sia uno dei migliori 100 film della storia del cinema. E non mi interessa poi molto. Quello che è certo che siamo di fronte a un grande film: la migliore opera prima dai tempi di Sex, Lies and Videotapes di Steven Soderbergh e, in assoluto, il miglior film sull’adolescenza dopo I quattrocento colpi di Francois Truffaut.
Un film ambizioso e coraggioso, che sembra la visualizzazione pop di una seduta psicanalitica di Philip K. Dick. Un film sugli universi tangenti, sulla second chance, sulla nostalgia del futuro. Ed è quantomeno affascinante che il percorso narrativo del film ricalchi il destino extratestuale delle pellicola stessa: girato nel 2001, è stato per 3 anni in un limbo alternativo, fatto di passaparola su Internet. E ha dovuto attendere il successo planetario dei fratelli Gyllenhal per conoscere la sua seconda possibilità e la notorietà.
L’unico modo per parlare di Donnie Darko (andate a leggervi lo straordinario shooting script) è assumere la sua stessa prospettiva, quella della psicanalisi e dell’analisi dell’inconscio: solo andando a ritroso si può dipanare il filo complesso della narrazione che mette in più punti alla prova la cultura e la pazienza degli spettatori, per ripagarli alla fine con un’esperienza sublime di condivisione e di pienezza emozionale.
Esattamente come Gretchen, alla fine del film, nell’ultima battuta, noi non sappiamo chi è Donnie Darko. E non lo sapremo mai. Perché tutto quello che ci è concesso di sapere di lui, sono solo quei 28 giorni di non-vita in un universo tangente, in cui la simultaneità dell’inconscio di un ragazzo turbato, si stempera in una narrazione apparentemente sequenziale, in cui il tema è la perdita delle illusioni.
Quante volte ci siamo chiesti come sarebbe stata la nostra vita, se… Il tema eterno del what if… diventa paradigma esistenziale del passaggio dall’adolescenza all’età adulta, con la ribellione all’autorità, la scoperta del sesso, il superamento del complesso di Edipo che si rincorrono, si negano e si inverano, in un tourbillon di riferimenti letterari (Graham Greene), cinematografici (Evil Dead di Sam Raimi e L’ultima tentazione di Cristo di Martin Scorsese), politici (le elezioni americane del 1988), musicali (Tears for fears e Duran Duran), che lungi dall’essere divertissement radical geek sono le più nitide indicazioni segniche sull’interpretazione da dare alla narrazione che Richard Kelly, il regista-sceneggiatore, potesse darci.
Donnie ha avuto un passato difficile: è stato in riformatorio dodici mesi (lo sappiamo dal sito www.donniedarko.com, esperienza extratestuale complementare e curatissima) per avere incendiato una casa. Soffre di sonnambulismo e, il 2 ottobre (le date sono tutto), viene ucciso nella sua stanza da letto dal motore di un jet o dal cielo che si apre sopra di lui, un cielo guidato da un dio cattivo e indifferente, che è la cifra ontologica di tutto il film. Ma invece che vedere tutta la sua vita che gli scorre davanti agli occhi come in un film nell’attimo della morte, Donnie vede uno squarcio della sua vita futura. 28 giorni e spiccioli. E sogna, oppure immagina, oppure vive un universo tangente. Scegliete la versione che più vi piace per spiegarvi quello che succede. Quello che importa è altro.
"Altro" è il fatto che in questi 28 giorni, Donnie, e noi con lui, vive tutta un’esistenza, in cui il passato e il futuro si sovrappongono, si intersecano per poi ricongiungersi nello straordinario finale che rimette metafisicamente le cose a posto. Ama, odia e si vendica (forse di chi ne aveva abusato durante l’infanzia?); prova a superare il suo complesso materno (incarnato dalla madre onnipresente e dalla psicologa, due facce della stessa crisi); scopre le sue maschere (altro tema fondamentale del film: la scadenza del destino è la festa di Halloween) e distrugge quelle degli altri. Vive una seconda occasione, scoprendola poco alla volta, per arrivare alla desolante conclusione che non esistono seconde occasioni. Il nostro destino è segnato. L’unica speranza che ci rimane è andare ogni giorno alla cassetta delle lettere per vedere se arrivano notizie dal futuro.
Qui sta la vera rivoluzione del film: il cinema americano da cent’anni ripropone lo stesso meccanismo, che viene definito consolatorio. Un eroe si trova di fronte a una prova: e sbaglia. Poi per tutto il film cerca di meritarsi una seconda occasione. Ci arriva e questa volta vince. Dalle love story ai film d’azione, il cinema è tutto qui. Ma non per Richard Kelly.
Il giovane regista (è del 1975) ci dice una cosa diversa: Donnie non ha mai avuto una seconda occasione, non poteva scegliere. Il suo destino è segnato. Perché nella vita non esistono le seconde occasioni. E il riferimento all’ultima tentazione di Cristo eleva in maniera subliminale la parabola inconscia di Donnie al livello di figura cristologica, trasferendo l’esperienza di un ragazzino della Virginia a condizione esistenziale dell’umanità. E tutto quello che ci resta sono le parole finali di Mad World dei Tears for Fears: “the dreams in which I´m dying are the best I´ve ever had”…