lunedì, dicembre 13, 2004

"Closer", o l'acquario dei sentimenti

Adattare un testo teatrale per il cinema è una delle imprese più difficili, a livello di sceneggiatura. Se poi a scrivere il copione è lo stesso autore della pièce teatrale, la partita è persa in partenza. "Closer", di Mike Nichols, non fa certo eccezione. Là dove avevano fallito autori del calibro di David Mamet, difficile che riesca il pur bravo Patrick Marber. Nonostante quattro attori impegnati allo spasimo (su tutti un Jude Law stratosferico), il film è un esercizio di stile che annoia anche un pochino. Grandi dialoghi, d'accordo, grandi riflessioni sul senso dell'amore, che potrebbero coprire un paio di stagioni dei Baci Perugina, d'accordo. Ma il senso complessivo è quello di avere osservato per un'ora e mezza quattro pesci in un acquario.

Del resto, lo stesso autore lo dichiara: "Closer" è un acquario dei sentimenti, con quattro personaggi estraniati dalla vita e dalla società che si amano, si tradiscono, si lasciano e si riprendono. Ma manca un senso complessivo, quel senso che è indispensabile al cinema, mentre può anche mancare in teatro. Senza un "tema morale" forte, che innervi la struttura narrativa, senza un domanda centrale a cui la sceneggiatura provi a dare un risposta, non si fa un film.

Una sfida per tutti quelli a cui il film è piaciuto: provate a dirmi qual è la posizione dell'autore sull'amore. Esiste? Non esiste? Che cosa significa amare? E tradire? Sono queste tutte le domande messe in gioco dal testo. Che restano misteriosamente disattese. O, meglio, non tanto misteriosamente. In teatro, infatti, complice la con-presenza di un pubblico partecipe, il gioco funziona. Io, autore, pongo le domande. E tu, spettatore, provi a dare le tue risposte.

In teatro il gioco funziona, perché l'acquario è senza il vetro che invece esiste al cinema. Per questo davanti a uno schermo siamo più protetti, ma abbiamo, nello stesso tempo, bisogno anche di un maggiore aiuto. È necessario che l'autore si faccia spettatore all'interno del film stesso e crei un simulacro della nostra presenza (il bettetiniano enunciatario): che indirizzi la nostra comprensione, riempiendo il testo di quel senso che manca a "Closer".

La regia di Mike Nichols, nonostante la pluridecennale esperienza, non va oltre la sufficienza. Non bastano un paio di trovate per risolvere un film a cui manca, e troppo, tutto il mondo esterno. Ancora il paragone con il teatro è esplicativo: su un palcoscenico posso anche dimenticarmi che esiste un mondo attorno. Al cinema non ci riesco. Dove sono i conflitti sociali? Ben lascia Alys perché Anna gli può consentire un salto sociale? E Anna lascerà poi Ben perché uno scrittore fallito non può essere all'altezza di una fotografa di successo? Che conflitto esiste tra "americani" e "inglesi"? Silenzio su tutta la linea.

Anche l'ossessione per il sesso, che è una delle cifre più interessanti e distoniche del testo teatrale, rimane solo sulla superficie nella versione cinematografica: e diventa un esercizio di routine, un modo cortese di scandalizzare il pubblico e dare l'idea che il film sia più profondo di quanto, in realtà, non sia. Insomma, per quanto vi possano piacere i pesci, dopo un'ora e mezza passata davanti all'acquario di "Closer", il desiderio più forte sarà quello di un fritto misto...

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